Serve la filosofia alla scienza? La risposta di Carlo Rovelli

All’utilità della filosofia per la scienza il fisico Carlo Rovelli dedicava un articolo per il Corriere della Sera del 30 agosto 2016: l’articolo è stato ripubblicato nel libro di articoli per i giornali Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018.

Nell’articolo Serve la filosofia alla scienza? l’utilità della filosofia per la scienza è da Carlo Rovelli ben rilevata: il rilievo del significato scientifico della filosofia esprime bene l’idea dell’unità della cultura come cifra dell’impegno culturale di Rovelli.

Nell’articolo Serve la filosofia alla scienza? Carlo Rovelli richiamava l’occasione della propria presente considerazione dell’utilità della filosofia per la scienza: la richiesta di «tenere una conferenza alla London School of Economics, in Inghilterra… La conferenza doveva chiudere il congresso europeo di filosofia della fisica, e implicitamente rispondere ad una serie di recenti commenti pubblici molto negativi  sulla filosofia da parte di miei colleghi assai noti» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 69). Nel preparare la conferenza occasione della presente considerazione dell’utilità della filosofia per la scienza Rovelli rilevava di aver ritrovato la rivendicazione del significato scientifico della filosofia nel Protrettico di Aristotele: «Aristotele risponde alle critiche di Isocrate, e discute perché la filosofia, lo studio dei fondamenti e dei concetti astratti, sia utile alle arti e alle scienze concrete» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 70). Era da Rovelli quindi sottolineata l’attualità degli argomenti di Aristotele relativi al significato scientifico della filosofia: «E’ stata una sorpresa: gli argomenti di Aristotele sull’utilità della filosofia per la scienza sono attuali. Per la mia conferenza, bastava copiarli e aggiornarli un po’» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 71).

Il primo argomento di Aristotele sul significato scientifico della filosofia è da Carlo Rovelli definito il più divertente ma rilevato ben sottile: nel Protrettico chi critica l’utilità della filosofia per le scienze sta per Aristotele facendo non scienza ma proprio filosofia. Del secondo argomento di Aristotele Carlo Rovelli sottolinea il carattere massimamente diretto: nel Protrettico per Aristotele la scienza è effettivamente influenzata dall’analisi dei fondamenti: rileva Rovelli: «… l’influenza del pensiero filosofico sulla migliore scienza occidentale è stata pesante e persistente… Il pensiero filosofico apre possibilità, libera dai pregiudizi, svela incongruenze e salti logici, suggerisce nuovi approcci metodologici e, in generale, apre la mente a possibilità nuove. E’ sempre successo in passato, e continua a succedere» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, pp. 72-73). Il terzo argomento di Aristotele si riduce ad una semplice notazione: Rovelli rileva nel Protrettico per Aristotele le scienze necessitare della filosofia specie «dove le perplessità sono maggiori» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 73).

Secondo il giovanile Protrettico di Aristotele utilità e significato della filosofia per la scienza sono nell’articolo Serve la filosofia alla scienza? da Carlo Rovelli ben riferiti specie a metodo e ristrutturazione teorica e concettuale fondamentale: «E’ soprattutto sulla metodologia, che è tutt’altro che statica nella scienza, che la filosofia interferisce con la scienza… Quando la scienza attraversa periodi di forte cambiamento, in cui concetti di base sono rimessi in discussione, ha più bisogno della filosofia. Un esempio è… il problema della gravità quantistica, su cui lavoro, dove le nozioni di spazio e tempo sono ancora una volta rimesse in discussione, e le vecchie argomentazioni sullo spazio e sul tempo, da Aristotele a Kant fino a David Lewis, tornano attuali» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 73).

L’articolo Serve la filosofia alla scienza? è da Carlo Rovelli portato alla conclusione ribadendo la negazione dell’inutilità scientifica della filosofia: «No, la filosofia non è inutile per la scienza. Ne è fonte vivissima di ispirazione, critica e idee» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 73).

L’articolo Serve la filosofia alla scienza? è da Carlo Rovelli concluso nella prospettiva della essenziale interazione di scienza e filosofia: «Ma se la grande scienza del passato si è nutrita di filosofia, è anche vero che la grande filosofia del passato si è abbeverata di scienza… Chiudere gli occhi al sapere scientifico attuale… è… solo ignoranza. Ancora peggiore è l’atteggiamento di quelle correnti filosofiche che considerano il sapere scientifico inautentico o di serie B, oppure una forma di organizzazione del pensiero arbitraria e non più efficace di altre» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, pp. 73-74).

La prospettiva dell’essenziale interazione di scienza e filosofia è nella conclusione dell’articolo Serve la filosofia alla scienza? da Carlo Rovelli ben inquadrata nell’idea filosofica del carattere unitario del sapere espressa dal suo impegno culturale ben rappresentato nel libro di articoli per i giornali Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza: «Il nostro sapere è incompleto, ma è organico: cresce in continuazione e ogni parte ha influenza su ogni altra. Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile. Tradisce la sua stessa radice profonda, quella della sua etimologia: l’amore per il sapere» (Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, RCS 2018, p. 74).

Leopold Infeld, “Albert Einstein”, Einaudi 1968: dall’ipotesi dell’etere cosmico spaziale assoluto alla relatività einsteiniana

La monografia Albert Einstein, Einaudi 1968 è la presentazione che alla metà del Novecento il fisico teorico polacco Leopold Infeld (1898-1968) dedicava alle idee scientifiche e al pensiero filosofico di Albert Einstein (1879-1955) come scienziato e filosofo novecentesco fondatore della teoria della relatività: «La relatività non nacque soltanto ad opera del genio di Einstein: Einstein attuò la rivoluzione per cui la scienza era ormai matura… Nel 1905 egli era… un giovane dottore in fisica di ventisei anni… Gli fu permesso di pensare e sognare e scrivere articoli destinati a cambiare la faccia della scienza» (p. 15).

In Albert Einstein L. Infeld rilevava il significato filosofico-scientifico della teoria della relatività introdotta da A. Einstein nel Novecento ponendo l’accento sulle premesse storiche della relatività einsteiniana nella scienza fisica precedente: Prima della rivoluzione di Einstein è il titolo del secondo capitolo dedicato all’origine e al fallimento del concetto teorico di etere cosmico: la fisica dell’Ottocento era divisa tra la teoria meccanica galileiano-newtoniana e la teoria dei campi di M. Faraday, J. C. Maxwell e H. Hertz: «Dei vari elementi della teoria meccanica e di quella dei campi possiamo riscontrare le tracce fin nelle antiche filosofie» (p. 17): lo sviluppo della teoria dei campi nella seconda metà dell’Ottocento portava al superamento del meccanicismo filosofico-scientifico moderno dominante nel diciannovesimo secolo: «Fino al diciannovesimo secolo nessuno pensava che questo regime meccanico potesse essere rovesciato. Lo sviluppo della scienza sembrava pianificato secondo linee meccanicistiche per tutto il futuro della nostra civiltà» (p. 18). L. Infeld insisteva sull’efficacia e sul conseguente successo del modello teorico esplicativo scientifico meccanico della fisica moderna galileiano-newtoniana: «Così la spiegazione dei fenomeni del calore, della luce e dei fluidi in movimento implicava l’elaborazione di un quadro meccanico appropriato. Ecco ciò che si intende quando si asserisce che il punto di vista meccanico regnava su tutta la fisica… per quasi tutta la prima metà del diciannovesimo secolo la teoria meccanica si diffuse e si approfondì fino ad assumere l’aspetto di un dogma filosofico… gli scienziati supponevano che tutto il nostro universo, e noi con esso, costituisse una gigantesca e complicata macchina che obbediva alle leggi newtoniane… Pareva… che nulla potesse impedire la sempre più vasta applicazione della teoria meccanica, e l’idea di spiegare tutti i fenomeni naturali alla luce della fisica newtoniana era considerata come una meta teoricamente accessibile» (pp. 18-19). Nel meccanicismo filosofico-scientifico moderno dominante nel diciannovesimo secolo si inquadra l’origine del concetto di etere cosmico per la teoria dei campi della fisica dell’Ottocento: l’ipotesi dell’etere era funzionale alla spiegazione meccanica della fenomenologia elettromagnetica di campo fisico e alla conseguente riduzione della teoria dei campi alla teoria meccanica: L. Infeld rilevava nel fallimento dell’idea dell’etere l’origine della teoria della relatività di A. Einstein.

In Albert Einstein la problematicità del concetto teorico di etere era da L. Infeld già sottolineata nel discorso storico-scientifico sull’origine dell’ipotesi dell’etere cosmico: la supposizione dell’esistenza dell’etere legava la teoria dei campi alla teoria meccanica salvando l’unità della fisica: il meccanicismo filosofico-scientifico ottocentesco portava all’idea del carattere necessariamente meccanico delle oscillazioni o vibrazioni o onde del campo elettromagnetico e quindi alla conclusione che in quanto meccaniche le onde elettromagnetiche comprensive della luce necessitassero di un mezzo materiale di propagazione, da cui l’inferenza dell’esistenza del supporto materiale della trasmissione luminosa ed elettromagnetica e l’identificazione del mezzo materiale trasmissivo elettromagnetico con l’etere cosmico: «Il nostro fisico del diciannovesimo secolo difenderebbe il suo punto di vista, e durante il dibattito apparirebbe… l’etere… Il fisico del diciannovesimo secolo… suppose che il nostro universo fosse tutto immerso in questa sostanza imponderabile, di cui egli conosceva almeno una proprietà: quella di trasmettere le onde elettromagnetiche. Lo stesso fisico ci avrebbe assicurato che col tempo altre proprietà sarebbero state scoperte e l’etere sarebbe diventato così reale come qualunque altro oggetto materiale» (p. 22). La tendenza della scienza meccanicistica ottocentesca ad assimilare la fisica dei campi alla fisica meccanica considerando gli stessi fenomeni elettromagnetici e della luce come oscillazione elettromagnetica meccanicamente trattabili e spiegabili non eliminava la specificità della realtà fisica continua del campo da L. Infeld sottolineata: «La teoria di J. C. Maxwell che governa i fenomeni elettrici e ottici è una teoria di campo perché in essa l’elemento essenziale è la descrizione di variazioni che si propagano con continuità nello spazio e nel tempo. Quindi il concetto di campo è in contrasto col concetto di particelle semplici della teoria meccanica» (pp. 19-20). Nel rilevarne la capacità sintetica esplicativa del mondo delle radiazioni elettromagnetiche L. Infeld rimarcava la distanza delle leggi di campo dello spettro elettromagnetico dalla teoria fisica meccanica: lo spettro elettromagnetico con le radiazioni luminose risponde alle equazioni di J. C. Maxwell: «Sia le onde emesse da una antenna che quelle emesse da un atomo sono onde elettromagnetiche che si diffondono nello spazio alla velocità della luce di 300.000 chilometri al secondo» (p. 20).

In Albert Einstein non solo la distanza ma la contraddizione fisica tra la teoria meccanica e la teoria dei campi era da L. Infeld rilevata nel discorso storico-scientifico sul fallimento della ipotesi dell’etere cosmico: dal superamento della contraddizione tra principi meccanico-elettromagnetici era da A. Einstein sviluppata la teoria della relatività ristretta o speciale da lui enunciata nel 1905: la relatività einsteiniana traeva le conseguenze dell’elevazione di un fatto empirico a principio scientifico: il fatto scientifico era la costanza della velocità della luce in un sistema di riferimento inerziale in moto relativo; era la constatazione empirico-fattuale dell’indipendenza della velocità della luce dal movimento della Terra come sistema inerziale relativo a portare alla negazione dell’esistenza dell’etere ipotetico ma privo di effetti rilevabili dall’esperienza percettiva sensibile. Come costanza o invariabilità elettromagnetica nei sistemi di riferimento inerziali in moto relativo l’indipendenza della velocità della luce dal movimento della Terra limitava la validità fisica del principio meccanico classico galileiano-newtoniano di composizione o somma delle velocità; l’eliminazione dell’etere cosmico come riferimento spaziale assoluto emerso dagli sviluppi ottici ed elettromagnetici della scienza fisica liberava scientificamente il principio meccanico classico di relatività galileiana dal quale muoveva L. Infeld nel discorso storico-scientifico sul fallimento dell’ipotesi dell’etere: «Immaginiamo due sistemi in moto uniforme l’uno rispetto all’altro, cioè con velocità costante, non accelerata, e lungo una linea retta… il principio di relatività di Galileo dice: se le leggi della meccanica sono valide in un sistema, esse saranno valide in qualunque altro sistema animato rispetto al primo di moto uniforme… Il punto essenziale non è il fatto che noi abbiamo due o più sistemi con osservatori in ciascuno di essi, ma che si possa trasferire la descrizione da un sistema ad un altro» (pp. 23-24). La relatività meccanica classica di Galileo stabiliva l’equivalenza fisica dei sistemi di riferimento inerziali per la quale secondo il principio di inerzia è dall’interno impossibile determinare se un sistema fisico sia in quiete o in moto rettilineo uniforme rispetto ad un altro: la possibilità di stabilire quiete o movimento non relativi ma assoluti era da L. Infeld storicamente rilevata nel riferimento privilegiato all’etere cosmico: ecco dagli anni Ottanta dell’Ottocento l’esperimento cruciale di A. A. Michelson e E. W. Morley per stabilire il moto assoluto della Terra determinandone la velocità di movimento non nello spazio vuoto assoluto di I. Newton, «che gli scienziati non ammettono più da quando H. Helmholtz ha dimostrato che l’esperienza non ce lo rivela» (Angiolo Maros Dell’Oro, Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi, Le Monnier 1953, p. 146), ma nell’etere cosmico spaziale: l’esperienza sperimentale di Michelson e Morley prevedeva la composizione delle velocità di luce e Terra ma provava l’indipendenza della velocità della luce dal moto della Terra come sistema inerziale relativo; la violazione del principio fisico meccanico classico galileiano-newtoniano di composizione o somma delle velocità mostrava l’inconsistenza esplicativa scientifica dell’etere cosmico e apriva al riconoscimento relativistico einsteiniano della costanza della velocità della luce come velocità limite massima nell’universo fisico.

In Albert Einstein L. Infeld rilevava la complementarità scientifica fisica meccanica classica del principio galileiano-newtoniano di composizione o somma delle velocità rispetto alla relatività galileiana: «La teoria meccanica accettava: 1) il principio di relatività di Galileo e 2) la legge della somma delle velocità» (p. 30). Il principio fisico meccanico classico della somma delle velocità non funziona tuttavia con la luce e le onde elettromagnetiche in generale in quanto si propagano alla velocità della luce: la velocità delle onde elettromagnetiche o della luce è sempre la stessa e non ha importanza se la loro sorgente o l’osservatore si muovono, dice L. Infeld: «Quest’ultimo risultato era incompatibile col concetto di etere. Inoltre, esso era incompatibile con la legge della somma delle velocità. La velocità della luce e la velocità di un sistema messe assieme non danno come risultato che la stessa velocità della luce» (p. 31). La validità limitata della somma o composizione fisico-matematica per addizione o sottrazione di velocità nei sistemi di riferimento contrastava col meccanicismo opponendo la teoria dei campi elettromagnetici alla teoria meccanica: con la limitazione alla meccanica della legge della somma delle velocità cadeva l’ipotetico etere cosmico spaziale assoluto, «che prometteva di unificare la teoria meccanica e quella dei campi» (p. 30), scriveva L. Infeld. Nella sua prospettiva di unificazione fisica meccanica la scienza meccanicistica ottocentesca era da L. Infeld rilevata così pregiudizialmente legata all’idea teorica dell’etere cosmico da contrastare il principio meccanico classico di relatività galileiana: «Perché il principio di relatività di Galileo afferma che tutti i sistemi in moto uniforme l’uno rispetto all’altro sono equivalenti. Ma non è così per il fisico che crede nell’etere. Fra i vari sistemi uno si distingue da tutti gli altri: il sistema in cui l’etere è in quiete, l’unico in cui la velocità della luce sia c = 300.000 km al secondo. Dunque il principio di relatività di Galileo non regge più. Lo sostituisce l’etere mediante una teoria assoluta» (p. 29). Alla determinazione della velocità del movimento della Terra come sistema di riferimento inerziale rispetto all’ipotetico etere cosmico spaziale assoluto mirava a fine Ottocento l’esperimento di Michelson-Morley: l’esperimento di Michelson-Morley escludeva empiricamente la composizione fisico-matematica meccanica delle velocità della luce e della Terra nel loro moto elettromagnetico-meccanico congiunto rispetto al supposto etere come sistema di riferimento privilegiato: l’esperimento di Michelson-Morley voleva stabilire il moto assoluto della Terra per differenza direzionale della velocità della luce nel suo movimento solidale terrestre ma provava con l’esperienza l’identità della velocità della luce in ogni direzione di moto sulla Terra, dice L. Infeld: «La famosa esperienza di Michelson-Morley… provò in maniera definitiva che non ci sono velocità differenti della luce! Esse sono uguali in tutte le direzioni e il loro valore è c, la velocità della luce, la quale, sembra strano, rimane sempre uguale a se stessa, sempre costante, sempre immutabile» (p. 30).

In Albert Einstein il significato scientifico empirico dell’esperimento cruciale di Michelson-Morley era da L. Infeld ben rilevato ponendo l’accento sulla difesa fisica meccanicistica del concetto teorico di etere cosmico spaziale assoluto: all’inconsistenza esplicativa meccanica dell’etere rispetto ai fenomeni luminosi ed elettromagnetici si affiancava l’opposizione dell’ipotesi fisico-matematica della contrazione di Lorentz-Fitzgerald attribuita ai corpi nel senso del movimento alla contraddizione della identità e costanza della velocità della luce rispetto al principio meccanico classico galileiano-newtoniano di composizione o somma delle velocità: alla fine dell’Ottocento la fisica era matura per la rivoluzione di A. Einstein: unendo al presupposto relativistico einsteiniano della estensione della relatività meccanica classica galileiana al campo elettromagnetico comprensivo della luce il postulato della costanza della velocità della luce nei sistemi di riferimento inerziali in moto relativo la teoria della relatività ristretta o speciale enunciata da Einstein nel 1905 elevava un fatto d’esperienza a principio scientifico.

Angiolo Maros Dell’Oro, “Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi”, Le Monnier 1953: parte III: epistemologia e scienza d’oggi: capitolo 8: la critica della scienza

In Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi, Le Monnier 1953 Angiolo Maros Dell’Oro dedicava la terza parte all’epistemologia e agli sviluppi contemporanei della scienza e della tecnica: il capitolo ottavo si occupa della critica della scienza e inizia col titolo Introduzione all’epistemologia.

Nel primo titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi A. Maros Dell’Oro rilevava la tendenza degli studiosi ad attribuire alla critica interna della scienza la definizione di epistemologia: se l’uso anglosassone del termine riguarda la stessa gnoseologia o teoria filosofica della conoscenza, l’epistemologia è lo studio critico della scienza o filosofia della scienza: «Spunti e trattazioni di particolari problemi in argomento sono frequenti nella storia del pensiero. Basti ricordare i nomi di Platone, Aristotele, Occam, Bacone, Galileo, Cartesio, Leibniz, Kant. Ma per una trattazione sistematica dell’epistemologia intesa appunto come la disciplina che riflettendo sulla scienza ne indaga criticamente la struttura formale, gli scopi, le possibilità bisogna venire molto più vicino a noi» (pp. 121-122). A. Maros Dell’Oro rilevava la preparazione ottocentesca dell’epistemologia da parte di A. Comte, J. Stuart Mill, C. Bernard, H. Helmholtz: l’epistemologia si è storicamente configurata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: «Ne va fatto merito ad alcuni illustri studiosi come E. Mach, l’empiriocriticista, il fisico inglese K. Pearson (1857-1936), autore de La grammatica della scienza (1892), il francese H. Poincaré (1854-1912), grande matematico e fisico, autore di libri come La scienza e l’ipotesi (1902), Il valore della scienza (1905), Scienza e metodo (1909), che tanto hanno contribuito a diffondere l’interesse per questo genere di studi, lo storico della chimica E. Meyerson (1859-1933), polacco di origine ma francese di adozione, autore di Identità e realtà (1908) e La spiegazione nelle scienze (1921), il discepolo di H. Bergson E. Le Roy, matematico e filosofo, e altri minori. Anche l’Italia, nello stesso periodo, ha dato il suo contributo epistemologico con Giovanni Vailati (1863-1909) e specialmente con Federigo Enriques (1871-1946), matematico e storico della scienza greca, autore del bel libro Problemi della scienza (1906)» (p. 122). A. Maros Dell’Oro proseguiva sottolineando il continuo aumento degli studiosi di epistemologia dopo la prima guerra mondiale: già divenuti «legioni» gli studiosi di epistemologia erano per lo più scienziati interessati ai problemi critici per illuminare la propria disciplina: «Fra loro vanno ricordati i grandi fisici Max Planck (1858-1947), A. Einstein, A. S. Eddington (1882-1944), N. Bohr, L. de Broglie, W. Heisenberg, P. Dirac, E. A. Milne. Molto meno numerosi sono i filosofi… Ricordiamo Antonio Aliotta in Italia e L. Brunschvicg (1869-1944) in Francia» (p. 122).

Nel secondo titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi A. Maros Dell’Oro poneva l’accento su due grandi conquiste dell’epistemologia: 1) il superamento dell’idea realistica della scienza come descrizione o riproduzione fedele del mondo dell’esperienza e 2) la distinzione fra riassumere e spiegare i fenomeni: la prima conquista è il «beneficio maggiore finora realizzato dall’epistemologia… perché il minimo che fa lo scienziato è selezionare certi fenomeni o certi aspetti da altri, e poi spingere tale astrazione al massimo» (p. 123): il riconoscimento dell’astrazione scientifica e la consapevolezza della realtà scientifica come costruzione astratta sono epistemologicamente essenziali; essenziale è nella scienza la differenza rilevata dall’epistemologia tra le leggi di natura come generalizzazioni induttive dai dati osservati e le teorie come spiegazioni dei dati osservati elaborate ricavando per sintesi le ragioni del legame delle leggi di natura sui dati osservati.

Nel terzo titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi le leggi di natura erano da A. Maros Dell’Oro epistemologicamente ben considerate: le discussioni epistemologiche sulle leggi di natura hanno modernamente rinnovato il problema scolastico medievale degli universali o concetti: per i realisti le leggi di natura hanno esistenza reale oggettiva indipendente dal pensiero filosofico-scientifico umano, per i nominalisti le leggi di natura sono al contrario convenzioni definitorie simboliche nominali dipendenti dal pensiero filosofico-scientifico umano: «Ma non possiamo cambiare a volontà le leggi di natura, ed esigere che un sasso lasciato libero cada in una maniera diversa da quella trovata da Galileo. Di qui la terza teoria. La quale vede nella natura degli elementi simili che le leggi riassumono induttivamente in seguito all’osservazione di alcuni di essi. Lo scienziato… si ferma all’esperienza, e qui constata che vi sono elementi simili, riassumibili nelle leggi di natura» (p. 125). Secondo l’approssimazione scientifica empirica ai fenomeni è epistemologicamente modernamente definita la stessa questione della causalità nelle leggi di natura, diceva A. Maros Dell’Oro: è il «problema della regolarità e irregolarità, e cioè del simile e diverso, che l’esperienza rivela nei fenomeni… che solo interessa lo scienziato. Altro infatti è il perché, la causa per cui avvengono i fenomeni, e altro la regolarità del come avvengono» (pp. 125-126). Il criterio scientifico empirico della similitudine e diversità fenomenica e la conseguente distinzione della regolarità dei fenomeni dalla causalità ha portato alla moderna negazione epistemologica dell’assolutezza delle leggi di natura: «Le leggi di natura possono essere relative, e subire delle eccezioni» (p. 126): A. Maros Dell’Oro rilevava nella relatività delle leggi di natura la complementarità di leggi statistiche e leggi probabilistiche, per cui le leggi statistiche stabiliscono la tendenza generale dei fenomeni e le leggi probabilistiche determinano le eccezioni al regolare andamento fenomenico: «La stessa legge di gravità di I. Newton, che nella sua perfetta semplicità sembrava di una assolutezza eterna, ha dovuto crollare. Il fisico francese Perrin ha calcolato la probabilità che un sasso, lasciato libero, vada in su anziché in giù. Si tratta di un numero piccolissimo, una frazione che ha al denominatore 1 seguito da 10 miliardi di 0. Per cui il fatto che la legge di Newton sia probabilistica non interessa la scienza comune, e meno ancora la vita pratica. Ma è il principio che conta» (p. 126). A. Maros Dell’Oro concludeva il terzo titolo dell’ottavo capitolo ponendo l’accento sul passaggio dal probabilismo soggettivo della scienza ottocentesca al probabilismo oggettivo della scienza novecentesca: «La statistica non era dovuta che alla nostra ignoranza… La nuova scienza introduce una probabilità… Lo scienziato, nel formulare le leggi, prescinde dal diverso e considera solo il simile. Ma si tratta di una astrazione soggettiva, che non elimina la realtà del diverso. E difatti, quasi a ricordarcelo, ogni tanto quest’ultimo ci fa la sorpresa di un’eccezione parziale o completa alle leggi di natura da noi formulate» (p. 127).

Al valore della teoria scientifica è dedicato il quarto titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi: scriveva A. Maros Dell’Oro: «Il problema della teoria scientifica è indubbiamente il più importante e il più affascinante di tutta l’epistemologia» (p. 128): la teoria scientifica è epistemologicamente interpretazione dell’esperienza; alla questione gnoseologica dell’esperienza rimanda filosoficamente la questione ontologica dell’esistenza dei concetti ed enti teorici per spiegare l’esperienza: «Se le teorie scientifiche non portano più vicino alla realtà di quel che faccia l’esperienza, resta da spiegare perché mai ci affanniamo, spesso con grandi sforzi, a costruirle; e, in secondo luogo, se il modo con cui le costruiamo è suggerito dall’esperienza o è del tutto arbitrario» (p. 130). Per la conoscenza e la pratica, la spiegazione e la previsione, il pensiero razionale e l’economia concettuale la scienza costruisce teorie: con E. Meyerson la teoria è riduzione fenomenica del diverso all’identico e con Federigo Enriques i modelli teorici della realtà salvano i fenomeni come apparenze empiriche: A. Maros Dell’Oro rimarcava il convenzionalismo linguistico oggettivo di H. Poincaré col suo rilievo dell’ordine teorico convenzionale ma non arbitrario dei fatti  empirici, per cui allo scienziato si deve la creazione non dei fatti bruti ma dei fatti scientifici teorici; teorico olistico è il convenzionalismo intermedio sostenuto da P. Duhem; al convenzionalismo estremo gli scienziati hanno replicato rilevando la suggestione dell’esperienza nella delineazione delle teorie. Le teorie scientifiche erano quindi da A. Maros Dell’Oro epistemologicamente paragonate ai possibili quadri del paesaggio dei fenomeni: «i quadri non sono del tutto soggettivi: rappresentano o, meglio, interpretano un paesaggio, e quindi, sia pure con più o meno libertà, vi si devono ispirare» (p. 135).

Nel quinto titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi A. Maros Dell’Oro proseguiva il discorso epistemologico passando bene dalla teoria scientifica alla matematica secondo filosofia e fondamenti, sviluppi e principi: «Il platonismo dei numeri… ha continuato ad avere fautori fino ai nostri giorni. Uno di essi era… il tedesco G. Frege (1848-1925)… Il platonismo delle figure ha invece ricevuto un grave colpo dalla scoperta delle geometrie non euclidee» (p. 135). Nel suo discorso epistemologico sulla matematica origine ed elaborazione di sistemi geometrici alternativi alla geometria euclidea erano da A. Maros Dell’Oro storico-criticamente ben rilevate: «Il cosiddetto quinto postulato di Euclide, secondo cui per un punto fuori di una retta si può condurre una parallela e una sola  alla retta data, già nell’antichità non aveva convinto appieno, tanto che vi erano stati dei tentativi di dimostrarlo. La questione fu ripresa vigorosamente nel Settecento dal gesuita Gerolamo Saccheri (1667-1733), il quale, nel libro Euclides ab omni naevo vindicatus (1733), cercò di dimostrare il postulato per assurdo» (p. 135). Nell’età moderna la errata convinzione logica della assurdità contraddittoria della negazione del quinto postulato euclideo delle parallele aveva nel Settecento portato Girolamo Saccheri a credere che l’antico incerto quinto postulato di Euclide dipendesse dagli altri postulati euclidei e ne fosse quindi dimostrabile come un teorema: l’indimostrabilità del quinto postulato di Euclide e la conseguente reale possibilità della geometria non euclidea era concepita all’inizio dell’Ottocento dal principe dei matematici K. F. Gauss (1777-1855): con Gauss la geometria non euclidea era nella prima metà dell’Ottocento sviluppata da J. Bolyai (1802-1860) e N. I. Lobacevskij (1793-1856) come geometria iperbolica che all’unicità della parallela del quinto postulato della geometria parabolica euclidea sostituiva il postulato della infinità delle parallele ad una retta per un suo punto esterno del piano geometrico; la prosecuzione della storia delle geometrie non euclidee nell’Ottocento era da A. Maros Dell’Oro rilevata nella costruzione della geometria ellittica della nullità delle parallele esterne ad una retta da parte del grande matematico tedesco B. Riemann (1826-1866): «Più tardi un geniale discepolo di Gauss, B. Riemann, partendo dal postulato che dal punto non si possa tirare nessuna parallela alla retta, costruì una seconda geometria non euclidea» (p. 135).

Nel quinto titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi la considerazione dello sviluppo ottocentesco delle possibilità geometriche portava A. Maros Dell’Oro a precisi rilevi filosofici ed epistemologici: il platonismo filosofico matematico geometrico è ben interrogato dalla coesistenza delle tre coerenti ma alternative geometrie parabolica euclidea, iperbolica lobacevskijana ed ellittica riemanniana derivanti dall’alternativo postulato delle parallele rispettivamente unica, infinite e nessuna con i suoi rispettivi teoremi e le sue alternative conseguenze logiche: tre mondi geometrici alternativi dovrebbero rientrare nell’unico mondo ideale platonico perfettamente armonico. Nel chiarimento epistemologico della distinzione fra matematica pura e matematica applicata era da A. Maros Dell’Oro poi rilevato «uno dei più grandi progressi del pensiero contemporaneo (p. 136): la matematica pura è ipotetico-deduttiva e le sue ipotesi sono le premesse definitorie, assiomatiche, postulative dalle quali sono logicamente derivate le conclusioni come teoremi dimostrati: la matematica è intesa come pura in quanto si ritengono a priori o indipendenti dall’esperienza e dai fatti del mondo le deduzioni logiche formali necessarie e le stesse premesse razionali possibili del discorso ipotetico-deduttivo matematico: «Dire questo non significa che l’esperienza non abbia dato o non possa dare preziosi spunti… Del resto già lo stesso Platone aveva argutamente osservato che la geometria è l’arte di ragionare in modo perfetto su delle figure imperfette. La differenza tra il grande Ateniese e gli epistemologi d’oggi è che il primo ritrovava le perfette entità della matematica nel mondo delle Idee e i secondi le fanno invece nascere nella mente umana a mezzo di definizioni e convenzioni» (p. 137). L’espressione quantitativa di fenomeni, leggi di natura e teorie scientifiche rimanda invece alla matematica applicata: il concorso scientifico di matematica pura e applicata era da A. Maros Dell’Oro epistemologicamente sottolineato ponendo l’accento sul passaggio storico dall’empirismo geometrico di K. F. Gauss e N. I. Lobacevskij al convenzionalismo di H. Poincaré: «Gauss e Lobacevskij avevano pensato alla possibilità di decidere quale geometria segua la natura misurando un grande triangolo col vertice sulla Terra e gli estremi in due stelle e osservando se la somma dei suoi angoli fosse uguale, minore o maggiore di due retti. Ma Poincaré ha dimostrato che la natura non saprebbe mai dirci nulla in proposito. Supponiamo che dai calcoli sperimentali si trovi che effettivamente la somma degli angoli del triangolo è riemannianamente maggiore di due retti. Siccome nel mondo dell’esperienza i lati del triangolo corrispondono ai raggi luminosi che ci arrivano dalle due stelle, ci troveremmo di fronte a questa alternativa: o di attribuire la geometria di B. Riemann alla natura, oppure di conservarvi quella di Euclide e dedurne che nel tragitto dalle stelle a noi i raggi non sono retti ma curvi. Bastano queste considerazioni per capire che l’esperienza non ci dirà mai nulla sulla geometria» (p. 138). Il concorso scientifico di soggettività convenzionale pura e oggettività empirica applicata era da A. Maros Dell’Oro epistemologicamente rimarcato col rilievo matematico geometrico della relatività di estensione, misure e dimensioni spaziali fisiche: «La conclusione è chiara. La natura non solo non segue Euclide a preferenza di Riemann o viceversa, ma non segue nessuna geometria affatto» (p. 139). Nella consapevolezza del suo concorso scientifico combinato nell’interpretazione dell’esperienza era da A. Maros Dell’Oro epistemologicamente rilevato il superamento dell’idea della verità fisica della matematica secondo la confusione di matematica pura e applicata: l’efficacia scientifica della matematica non deve farci dimenticare la considerazione di A. Einstein in Geometria ed esperienza del 1921: «Le proposizioni matematiche in quanto si riferiscono alla realtà non sono certe, e in quanto sono certe non si riferiscono alla realtà» (p. 140). A. Maros Dell’Oro concludeva il quinto titolo dell’ottavo capitolo ribadendo il riconoscimento epistemologico che la razionalità scientifica teorica matematica appartiene all’uomo e non alla natura ed è quindi da sola incapace di portarci alla realtà: «… la natura… reagisce alla nostra pretesa di imporle i nostri astratti schemi matematici» (p. 142): «… non esiste una geometria applicata più vera di un’altra ma solo una più facile, più efficace o, come dice anche qui H. Poincaré, più comoda di un’altra, nel senso appunto che la natura, o un suo settore particolare, si presta più ad esser trattata con essa che con un’altra geometria… L’abilità dello studioso della natura sta infatti nel saper scegliere lo schema geometrico che meglio riesce ad esprimere i fenomeni da lui studiati… I pregi di… razionalità della matematica pura diventano preziosi… per costruire le teorie scientifiche. Un’equazione ad esempio può riassumere interi mondi di fenomeni… così solo la matematica sa darci un’idea del mondo interno di un atomo… Ma forse la meraviglia maggiore della matematica applicata è che in alcuni casi essa consente di anticipare la stessa esperienza. J. C. Maxwell ha trovato a priori, dall’esame delle equazioni matematiche di certi campi elettromagnetici, i primi suggerimenti della sua grande teoria elettromagnetica della luce, che solo molti anni più tardi H. Hertz doveva confermare sperimentalmente… In analoghe circostanze di orientamento matematico nella complessità dei fenomeni del mondo P. Dirac ha predetto l’elettrone positivo, che più tardi l’esperienza ha trovato» (pp. 140-141).

Il sesto e ultimo titolo dell’ottavo capitolo di Filosofia, scienza e tecnica dal positivismo a oggi è dedicato al neoempirismo o empirismo logico o positivismo logico o neopositivismo: A. Maros Dell’Oro rilevava le premesse storiche della approssimazione logico-linguistica neopositivistica alla scienza e alla filosofia: secondo il modello logico-matematico di G. W. Leibniz nel Seicento le costruzioni logiche di sistemi linguistico-concettuali perfetti corrispondono storicamente all’esigenza culturale filosofico-scientifica di ogni tempo di precisione linguistica non ordinaria; dalla metà dell’Ottocento con A. De Morgan (1806-1871), G. Boole (1815-1864), S. Jevons (1835-1882) e C. S. Peirce (1839-1914) lo sviluppo della logica matematica contemporanea supera i limiti sostanzialistici della logica di Aristotele e all’inadeguatezza relazionale della logica aristotelica soggetto-predicato oppone il rigore logico analitico matematico e la precisione linguistico-concettuale scientifica; dall’Ottocento al Novecento dal contributo logico-matematico fondazionale e notazionale di G. Frege (1848-1925) e Giuseppe Peano (1858-1932) si giunge ai Principi della matematica (1903) di B. Russell (1872-1970) e ai Principia mathematica (1910-13) di B. Russell e A. N. Whitehead (1861-1947): «In essi viene pure ripreso il tentativo di Leibniz di dimostrare che la matematica sarebbe interamente riconducibile alla logica» (pp. 142-143). Al discepolo di B. Russell L. Wittgenstein (1889-1951) è quindi nel Novecento dovuta la piena valorizzazione dei metodi logici matematici: al “primo Wittgenstein” del Tractatus logico-philosophicus del 1921-22 appartiene l’idea scientifica empirica di costruire un linguaggio logicamente perfetto: come mediatore nello sviluppo della filosofia come analisi logica del linguaggio il primo Wittgenstein influisce sull’empirismo logico di M. Schlick (1882-1936): ecco nel Novecento il neopositivismo come conclusione delle premesse storiche della sua approssimazione logico-linguistica alla scienza e alla filosofia, e del neopositivismo A. Maros Dell’Oro scriveva: «Wittgenstein si riattacca, per molti e molti fili, alla cosiddetta Scuola di Vienna, o scuola del rigore logico come è stata pure chiamata, fondata nel 1928 da M. Schlick e illustrata da numerosi rappresentanti, fra cui emergono R. Carnap, O. Neurath, P. Frank. Un movimento analogo sorge a Berlino con H. Reichenbach. Infine alla Scuola di Vienna, oggi diventata la Scuola di Chicago, si ispirano studiosi negli Stati Uniti, in Inghilterra, Polonia e Italia (Ludovico Geymonat)» (p. 143). Del neopositivismo A. Maros Dell’Oro sottolineava l’antimetafisica basata sul criterio logico ed empirico di significanza conoscitiva e la definizione convenzionale dei presupposti teorici del sapere e della scienza: in quanto fondata su logica ed esperienza la scienza era dai neopositivisti  così considerata l’unico vero sapere da voler identificare la stessa filosofia colla logica della scienza: è la logica della scienza la disciplina per stabilire se giudizi, affermazioni, proposizioni, enunciati siano dotati o privi di senso conoscitivo e il criterio di senso conoscitivo è neopositivisticamente la verificabilità di principio per la quale il significato di una proposizione è il suo metodo di verificazione e rimangono escluse le inverificabili e quindi insensate proposizioni metafisiche: «Ora, per i neopositivisti, tutte le proposizioni della metafisica sono senza senso. Per quanto si cerchi in tutti i modi di trasformarle o di integrarle con ciò che mancava, esse non sono mai riconducibili a proposizioni tali che l’esperienza possa stabilire se sono vere o false… le proposizioni metafisiche sono inverificabili e quindi senza senso per principio, e di conseguenza vanno tutte rigettate» (pp. 143-144).